4 giugno 2021 | CARBONI E RIGENERAZIONI. DOVE FINISCONO I PFAS TOLTI DALL’ACQUA? IN ARIA? LA QUESTIONE CARBONI ATTIVI, I DOCUMENTI CHEMVIRON-ARPAV-MITENI, LE DOMANDE SENZA RISPOSTA DELLA REGIONE VENETO IN ECOMAFIE

di Davide Sandini

Ciò che state per leggere – crediamo – è uno dei passi più importanti nella lotta no pfas di questi ultimi anni. Un cambiamento di fase, quasi un cambiamento di stato, per prendere spunto dal linguaggio della fisica. Meglio, un cambiamento di “matrice ambientale” per passare alla più complessa articolazione biologica di cui la chimica e la fisica sono la base.

Stiamo infatti per farvi fare un passaggio dalla matrice acqua alla matrice aria, lasciando per il momento da parte le altre matrici collegate, alimenti e suoli. Ci siamo chiesti per molto tempo dove potessero finire i PFAS tolti dall’acqua, dagli acquedotti, dalle barriere idrauliche, perfino dai fanghi, quando queste sostanze temibili e persistenti non percolassero nel profondo delle nostre terre. Per poi riemergere nei nostri piatti.

Il sospetto è nato dal concatenamento di quattro fatti: l’arrivo degli studi sull’incenerimento dei Pfas dagli Stati Uniti (v. nostri documenti scientifici 30 aprile 2020), il conseguente controllo delle emissioni “storiche” in aria della Miteni con la verifica incrociata dei due soli documenti Arpav disponibili (di per sé controversi nei parametri di riferimento contestuali e nelle unità di misura, v. in calce al nostro articolo 18 febbraio 2021), la questione Inceneritore di Fusina (v. ibidem), la presenza a Legnago di una fabbrica a controllo multinazionale che rigenera i carboni (“rigenerazione” che l’Arpav dichiara “saltuaria” [!] per i Pfas nel documento 28/01/2020, restando troppo sul generico, nonostante il tonnellaggio, nonostante l’emergenza in Veneto, nonostante lo stesso codice rifiuti CER Miteni/Chemviron).

A seguito di accurate indagini e ricerche, abbiamo riscontrato alcune incongruenze (prontamente segnalate alle autorità). Tali evidenze risultano ancora più inquietanti se si ascolta la registrazione dell’audizione della Commissione Ecomafie del 20 maggio 2021 dove l’ARPAV appare in seria difficoltà non solo sulla questione “bonifica Miteni”, ma anche sulla domanda senza chiara risposta immediata sui “carboni attivi rigenerati” dalla Chemviron di Legnago, e soprattutto se si collegano queste titubanze con il recente comunicato da parte dei Comitati di Mestre e Venezia nel quale si apprende che le indagini sulle emissioni dell’Inceneritore di Fusina non sono state fatte come si doveva. Anzi, sono state messe fuori misura, di tempo e di spazio.

Da qui, in arrivo un esposto/diffida contro Regione Veneto e Arpav sul mancato controllo delle emissioni in aria, proprio nel sito di Fusina dove si volevano “termodistruggere” i fanghi e i percolati contenenti PFAS. Già nel 2017 la Regione Veneto aveva concesso un “discutibilissimo” permesso alla Miteni di installare un nuovo cogeneratore ad implementazione del vecchio inceneritore (sempre a firma dell’assessore Gianpaolo Bottacin, in piena emergenza pfas). Tale firma ci ha permesso di rintracciare i documenti controversi di Arpav 2017 e 2019 citati sopra, finora trascurati da tutti, firmati a loro volta da Nicola Dell’Acqua, il Commissario Arpav “scomparso”. Riapparso di recente alla direzione di Veneto Agricoltura.

Dopo aver letto l’AIA (autorizzazione integrata ambientale) della Chemviron, dopo aver preso visione di altri importanti documenti accessibili, la domanda di dove siano finite le sostanze filtrate dagli acquedotti del Veneto mediante carboni attivi, sorge spontanea. In aria? E se così fosse, dove? E se esiste questo potenziale povero dove, è stato costantemente monitorato, specie sui PFAS più pericolosi in aria, come il PFBA, o altri?

Ponete queste tre domande ai sindaci dei comuni contaminati. Chiedete loro e ai relativi gestori delle acque se si sono mai interessati del regolare smaltimento di queste sostanze. Non si tratta di un solo Comune, ma di decine e decine di Comuni, e di una quantità di PFAS che fa rabbrividire.

Domande inquietanti, se si pensa che l’azienda da noi presa come caso-studio ha avuto una variazione dell’AIA che le ha permesso di triplicare le tonnellate di rifiuti tossici trattati proprio nello stesso periodo “referendario” in cui la Regione Veneto annunciò zero pfas negli acquedotti. Eravamo nell’ottobre del 2017 – ai tempi della venuta di Robert Bilott e della Marcia dei Diecimila – ma, come suggerisce la cover (v. nota finale), non dobbiamo sorprenderci. Viviamo in una Regione dove si pensa al prosecco e al big-barbeque nel mentre la catastrofe sociale e ambientale emerge dal fondo della propria illusione di sicurezza domenicale. Dopo essere rientrati a casa navigando sopra una Superstrada Pedemontana Veneta che ha devastato genti e territori, ma che porta diritta verso le Olimpiadi tardoclimatiche. Tra Milano e Cortina. O tra Legnago e Trissino?

Abbiamo quindi il dubbio legittimo che sulla questione PFAS il Veneto abbia capovolto i danni ancora una volta in primati, in profitto, in ori olimpici, ossia che dopo essere stati primi nell’acqua contaminata, lo siamo o lo saremo pure per l’aria. Nel silenzio/assenso della politica. Per questo indaghiamo. Per dissolvere quel dubbio. Ma soprattutto per fare in modo che il crimine Miteni non sia esportato altrove, in India, considerando l’assurda compravendita transnazionale della Miteni e il decommissioning messo in opera dai nostri attori economici, ai quali è stata affidata una bonifica ancora in alto mare. Una vergogna – bonifica e compravendita – per i nostri territori. Una politica ottusa e cinica che si affida ai responsabili diretti della contaminazione per una bonifica farlocca e che permette di vendere una produzione criminale in contesti sociali dove si sa che si controlla ancora meno. Una vera e propria esportazione di inciviltà.

Buona lettura.
Comitato di Redazione PFAS.land

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CARBONI E RIGENERAZIONI. DOVE FINISCONO I PFAS TOLTI DALL’ACQUA?

di Davide Sandini

Appena emerso il problema dei Pfas nelle acque potabili in Veneto, la risposta immediata dei gestori delle acque e della Regione del Veneto è stata quella di usare filtri a carbone attivo sulle captazioni maggiormente inquinate, filtri che per anni sono stati definiti come la soluzione ideale al problema.

Una nostra ricerca di informazioni sul destino finale delle sostanze indesiderate estratte dai carboni attivi esausti non ha permesso di capirlo, sollevando molte domande cui è necessario trovare una risposta.

Questo articolo fa parte di una analisi più ampia sui filtri, ma l’urgenza imposta dalle possibili conseguenze dei concetti qui esposti ci costringe ad anticiparne una parte.

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FILTRI A CARBONE ATTIVO

Un sistema filtrante a carboni attivi (AC, da Activated Carbon), è un sistema in cui un mezzo da filtrare viene fatto passare attraverso un filtro poroso realizzato con piccoli granuli di carbone attivo. Per sua natura questo materiale ha un’elevata capacità di assorbire grazie alla superficie complessiva delle sue porosità (un grammo di CA può avere una superficie complessiva adatta alla filtrazione di centinaia di metri quadrati). Questa capacità di “filtrare” una determinata quantità di sostanze viene detta adsorbimento.

Il carbone attivo si ottiene da trattamento ad alta temperatura di sottoprodotti vegetali (gusci di cocco, torba, legno), da carbone minerale oppure, anche se non fa “green” dirlo, anche da olii minerali pesanti. Il carbone attivo viene prodotto in polvere (PAC) o in granuli (GAC) per avere una pezzatura più comoda nella gestione, e per sua natura è in grado di assorbire sulla sua superficie, una grande quantità di sostanze differenti, ma anche di rilasciarle. Ogni grammo di AC può avere una superficie interna delle sue porosità fra 500 e 1500 m2, quindi è chiaro che può arrivare ad assorbire su questa enorme superficie una elevata quantità di sostanze.

L’AC a prima vista è una sostanza poco invitante, con l’aspetto di polvere o granuli neri, ma di per sé non è tossico, e anzi viene usato anche come farmaco contro le intossicazioni, o in capsule per altri usi farmacologici. 

Il problema può esserci quando invece ha adsorbito sostanze tossiche, o se viene inalato, anche puro.

Per filtrare l’acqua l’AC viene inserito in grandi serbatoi metallici cilindrici verticali, visibili nelle foto aeree pubblicati sui Geoportali della Regione del Veneto e del Ministero dell’Ambiente. Le dimensioni dei serbatoi sono grandi, 2-2,5m di diametro e 3-4 m di altezza, per parecchie tonnellate di carbone in ogni serbatoio (13 tonnellate di AC per serbatoio secondo Acque Veronesi) [1]. L’acqua viene fatta passare attraverso il carbone, e le grandi dimensioni fanno rallentare il flusso in modo che l’inquinante si depositi nelle porosità del carbone.

La centrale di potabilizzazione di Lonigo fotografata da Luca Quagliato per il progetto La Terra di Sotto – I veleni del Nord Italiahttp://www.laterradisotto.it/

Come facilmente ipotizzabile, l’azione filtrante, che è elevata all’inizio del suo uso per un filtro nuovo, a mano a mano che i pori si riempiono delle sostanze adsorbite, permette la cattura di sempre meno sostanze, e alla fine del suo ciclo di vita il carbone attivo non è più in grado di assorbirne, o addirittura in determinate situazioni, può iniziare a cedere di nuovo queste sostanze al mezzo filtrato, che ne esce con concentrazioni anche superiori a quelle in ingresso.

Per questo motivo la funzionalità di un filtro a carbone attivo andrebbe sempre monitorata con frequenti analisi, risentendo delle concentrazioni in ingresso, delle temperature, della eventuale presenza di altre sostanze che competono per la stessa superficie filtrante, delle condizioni di velocità del mezzo, del tempo di contatto con il filtro, della quantità di sostanze già assorbite dal filtro.

Riguardo alla efficacia sulle sostanze oggetto della nostra ricerca – i PFAS – per le diverse tipologie (da 12 a 20 secondo le analisi ARPAV) che negli ultimi anni sono state ricercate, e quindi le sole di cui si può misurare la presenza, è sempre stato detto che i filtri AC sarebbero stati efficaci in misura “buona” per filtrare le sostanze dette a “catena lunga”, pure se tale suddivisione è più una prassi commerciale dei produttori, mentre l’efficacia contro le sostanze dette a “catena corta” è sempre stata definita non ideale (quindi si può probabilmente intendere “bassa”).

Una ricerca pubblicata nel 2019 [2], mostra però una realtà abbastanza diversa, e molto preoccupante.

Clicca sull’immagine per accedere allo Studio Bertanza et al.

Lo studio “Long-term investigation on the removal of perfluoroalkyl substances in a full-scale drinking water treatment plant in the Veneto Region, Italy” di Bertanza G., Capoferri G.U., Carmagnani M., Icarelli F.,  Sorlini S., Pedrazzani R. (che in seguito definiremo Bertanza et al.), è la conclusione di 5 anni di ricerche (luglio 2013 – marzo 2018) mediante un cospicuo numero di analisi chimiche sul sistema di filtrazione a vasta scala di Lonigo, gestito da Acque Veronesi. Da questa prima risultanza si evidenziano i problemi dei filtri sulla lunga durata, con il potenziale rischio di rilascio di sostanze diverse – ma delle stessa famiglia – da quelle che si vogliono filtrare nel momento in cui il carbone attivo diventa saturo. La nostra analisi sulla efficacia della filtrazione non è compresa in questo primo articolo.

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CARBONI ATTIVI ESAUSTI

Qui ci limiteremo a considerare il problema dello smaltimento dei Pfas estratti dall’acqua contaminata. Infatti, una volta saturi di Pfas, i Carboni Attivi devono essere sostituiti, e potrebbero quindi essere smaltiti in discarica, oppure come si dice, “rigenerati”.

Lo smaltimento in discarica pone il problema della quantità enorme di materiali da smaltire (una delle ditte fornitrici di questi materiali ha incrementato di recente la propria produzione da 30.000 a 100.000 tonnellate annue) e della loro pericolosità, dato che i carboni sono saturi al limite del rilascio di sostanze non degradabili, che inquinano anche i liquami percolati sul fondo delle discariche, e questi poi devono essere smaltiti a loro volta in un depuratore. Si sa che i depuratori non possono decomporre i Pfas, e quindi i Pfas alla fine di questo ciclo per niente sostenibile, ritornano in ambiente allo scarico dei depuratori.

Il documentario americano che mostra in modo chiaro – minuti 15/20 – cosa sono i “carboni attivi granulari” utilizzati dai gestori dell’acqua e dai residenti di Plainfield Charter Township (Lago Michigan), dopo la grave contaminazione da Pfas scoperta nel 2017 a causa di una discarica abusiva di scarti conciari. Il documentario mostra “senza filtri” il dramma di un comunità colpita dai PFAS, con le prime mosse del Congresso e i ritardi dell’EPA, molto simile per funzione, procedura, nomine politiche e relativi asservimenti [causati dalle nomine], alla nostra ARPAV.

Un recente documento, che illustra un progetto di filtraggio del percolato della discarica di Sant’Urbano (PD) [3], mostra le analisi del percolato di un’altra discarica di Treviso, che sarebbe stato usato come banco di prova per la filtrazione. Una tabella relativa a quest’ultima mostra concentrazioni di Pfas, 150.000 ng/l di PFOS, 925.954 ng/l di altri PFAS, per un totale di 1.300.000 ng/litro circa. 

Quindi, i depuratori dove probabilmente sono stati inviati i percolati della discarica di Treviso, e di quella di S.Urbano, sarebbero stati caricati di elevatissime concentrazioni di sostanze non eliminabili dal loro processo di depurazione, che verosimilmente potrebbero avere preso la strada del mare tramite i corsi d’acqua dove questi scaricano, oppure consegnati ad altre discariche ancora come fanghi di depurazione.

Purtroppo, ARPAV non sembra avere pubblicato dati di concentrazione dei PFAS attorno alle discariche citate.

La procedura di “rigenerazione”, viene invece descritta in alcuni siti di produttori di AC con poche varianti, quindi dovrebbe essere comune e consolidata.

L’AC viene trasferito in un forno rotativo in atmosfera inerte, per evitarne la combustione, e tramite l’alta temperatura (da 800°C fino a 1100°C) le sostanze inquinanti “normali” dovrebbero essere decomposte. Purtroppo, come descritto nell’articolo pubblicato su PFAS.land dal dott. Giovanni Fazio [4], si apprende come non si sia riusciti a decomporre i Pfas in forni “commerciali“, dato che la temperatura di scissione dei Pfas è ben maggiore dei 1200°C a cui si è arrivati in USA nel forno presso Norlite (NY), e il tentativo di termodistruzione dei Pfas residui presenti nelle schiume antincendio militari è stato perciò vietato, poiché pericoloso per la salute pubblica, come descritto in un articolo di The Intercept [5].

Se la distruzione dei Pfas non è avvenuta negli Stati Uniti a 1200°C, perché potrebbe avvenire in Italia a soli 800°C?

Non solo: il tentativo di termodistruzione con temperatura insufficiente comporterebbe la liberazione in aria tramite un camino delle sostanze inquinanti intatte, senza alcuna neutralizzazione, oppure solo parzialmente trasformate in molecole fluorurate di tipo differente. Di queste sostanze che possono essere respirate o depositarsi sui suoli, non si conoscono né le caratteristiche chimiche, né le conseguenze sanitarie [fatta eccezione per le emissioni in aria del camino Miteni, Arpav 2017, e relative indagini epidemiologiche sull’emergenza sanitaria Pfas in Veneto, attualmente in corso, ndr].

Il processo di rigenerazione dei carboni continuerebbe poi con un trattamento mediante vapore, il quale porterebbe a liberare il carbone dalle ultime sostanze adsorbite, come affermato in diverse dichiarazioni pubbliche da parte dei produttori, trattamento che probabilmente ha solo lo scopo di “riattivare” le capacità di adsorbimento, visto che si usa anche sul carbone vergine per “attivarne” la porosità, e non avrebbe quindi effetto sulla presenza di inquinanti.

Tale affermazione – piuttosto equivocabile – mostra che il processo di rigenerazione non sarebbe ben compreso neanche da chi acquisisce i carboni, e quindi giustifica la nostra domanda se sia stata realmente valutata la loro efficacia prima di utilizzarli per anni su grande scala, soprattutto se si profila all’orizzonte lo spostamento del problema a causa del fallimento della termodistruzione: si tolgono i Pfas dalle acque potabili per spostarli in aria.

Infatti, dal processo di rigenerazione rimarrebbe un residuo di polvere di carbone dai granuli frantumati, assieme a sostanze residue del filtraggio dalla vagliatura del granulato, frazione di scarto che dovrebbe essere ancora una volta mandata in discarica o incenerita, con gli stessi problemi sopra descritti, a parte la quantità inferiore come massa lorda di scarto.

A questo punto il carbone rigenerato potrebbe essere usato per filtrare altre sostanze diverse dall’acqua potabile. Nei bandi di Acque Veronesi si nota che viene acquistato anche AC rigenerato [6], e sembrerebbe che questo sia usato ASSIEME a quello vergine. Nulla per ora è dato sapere sulla reale percentuale di estrazione degli inquinanti dal carbone attivo rigenerato, o per meglio dire quale sia la quantità di Pfas ancora presente nel carbone rigenerato, con il rischio che questa si liberi durante gli usi successivi del carbone.

Se si va poi a vedere in quali aziende viene effettuata la produzione e la rigenerazione del carbone attivo, una delle mete più ricercate risulta essere la Chemviron di Legnago (ex CECA Italiana), fornitore di Acque Veronesi, secondo alcuni contratti disponibili sul sito della stessa [7].

Nel sito del Geoportale del Veneto si può vedere nelle foto aeree la sede della ditta come una grande macchia nera. Tutte le superfici visibili – tetti, mura, piazzali – sono scuri, e risultano apparentemente coperti di polverino nero, forse originato dal materiale trattato. Immagine ben differente da quella ritoccata e pubblicata in un articolo redazionale (quindi pubblicitario) su un recente numero del Sole 24 ore [8]. Non è un reato ritoccare le foto pubblicitarie, ma se il ritocco è così palese mentre la realtà visibile dai siti della Regione del Veneto è differente, è anche legittimo chiedersi perché sia stato fatto, e cosa sia tutto quel nero sopra le superfici: il ritocco non è solo sopra il tetto dell’edificio principale, che potrebbe anche essere verniciato di nero, tanto è scuro ed uniforme, ma risulta messo in opera pure sopra i tetti degli edifici vicini, il cui tipo di copertura non sembra di colore nero originariamente. La presenza di polverino nero si nota anche sulle lapidi del vicino cimitero.

Particolare di una foto da Il Sole 24 ore (sopra) e di una foto aerea dal Geoportale della Regione del Veneto (sotto), che mostra la Chemviron di Legnago apparentemente coperta di polvere nera (nord a destra)

Dato che però dall’AIA della stessa ditta [9] e [10] si evince che questa non avrebbe un processo di produzione di Carbone Attivo vergine (ricordiamo che questo si usa anche in farmacia tal quale), ma che invece sembra poter solo trattare carbone attivo esausto, è legittimo domandarsi quale quantità di quello strato nero sia polvere di carbone esausto e quanta di carbone rigenerato, in tutti e due i casi pronto a scendere per le grondaie e gli scarichi alla prima pioggia, o di muoversi nei giorni di vento per finire nei polmoni degli abitanti dei dintorni. Ma soprattutto, se insieme a quel carbone ci siano anche residui dei Pfas filtrati a Lonigo e fatti “evaporare” a temperatura troppo bassa dentro il forno, molecole purtroppo molto ben gradite dal polverino di carbone che per quelle sostanze è la “calamita” ideale.

La ricerca Bertanza et al. ci mostra anche che ogni contenitore di carbone attivo trattiene dentro di sé fra i 300 e i 350 grammi di PFAS per ogni tonnellata di carbone, e quindi una carica di 13 tonnellate per un singolo contenitore ne conterrebbe da 3,9 a 4,5 kg. Questo indica che ad ogni cambio di filtri, per 10 contenitori di carbone una quantità fra 39 kg fino a 45 kg di PFAS sarebbero usciti dalla fabbrica, o dal camino del forno per disperdersi attorno, o verso le fognature.

La ricerca permette di calcolare la quantità di sostanze emesse in 5 anni dal processo di rigenerazione, che come somma globale potrebbero arrivare a 195 kg di PFAS, il cui destino non è invece stato chiarito.

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AUTORIZZAZIONE INTEGRATA AMBIENTALE – AIA

L’analisi dell’AIA della Chemviron permette di elencare i seguenti elementi:

  • Non esiste un processo di produzione del carbone attivo vergine, che viene solo movimentato.
  • Il processo autorizzato è la rigenerazione di carbone esausto.
  • Il materiale in ingresso (recupero solventi, industria alimentare e potabilizzazione) non viene tenuto separato ma condivide la stessa linea, come si evince dalla nota 28 del documento [9] > due sili della capacità di 60 metri cubi cadauno devono essere a servizio del carbone esausto proveniente dagli impianti di potabilizzazione e/o alimentare (totale di 120 m3 corrispondente a circa 100 tonnellate); inoltre viene dichiarato che il carbone rigenerato tornerebbe al cliente originario, cosa ben difficile da farsi se il carbone in ingresso condivide i silos con carbone di altre provenienze.
  • Ci sono indicazioni della temperatura del postcombustore del forno (fra 800°C e 1100°C in base al tipo di carbone, per quello da potabilizzazione si dichiara che la temperatura può essere fino a soli 850°C), ma non ci sono limiti di emissione specifici per sostanze del gruppo dei PFAS. Tale mancanza è ancora più sospetta in quanto la determinazione è del 2015, quindi dopo anni da quando erano in uso i filtri a carbone attivo.
  • Lo “scrubber” cioè l’unità che servirebbe ad abbattere polveri o gas in uscita del forno, produce acqua di scarto che andrebbe (dopo aggiunta di latte di calce) allo scarico in fognatura (nota 29 > Reflui di tipo: ASSIMILABILE AI CIVILI derivanti dai servizi igienici; INDUSTRIALE derivanti dalla lavorazione dei carboni attivi e dalle meteoriche di dilavamento tetti e piazzali per una superficie di 22.000 mq). L’uso di calce in questo caso sembra destinato a produrre la precipitazione di alcune sostanze, ma in assenza di misure il suo impiego sembra puramente cosmetico.
  • Le prescrizioni di analisi per lo scarico in fognatura (nota 55 > deve essere effettuata, con cadenza trimestrale, servendosi di un laboratorio accreditato ACCREDIA, l’analisi del refluo scaricato in fognatura) non contemplano i PFAS. Un vero e proprio omissis se si pensa quali siano i clienti, ossia i gestori delle acque potabili contaminate da Pfas di buona parte del Veneto.
  • Arpav non pubblica misure di PFAS né nel canale Bussè, dove scarica il depuratore di Legnago, né nel canal Bianco dove questo confluisce vicino alla discarica di Torretta, se non ad Adria, diverse decine di km a valle.
  • Un trafiletto criptico indica che la falda sotto alla ditta sarebbe oggetto di pompaggio tramite due piezometri e dopo un trattamento non specificato, l’acqua sarebbe usata per i processi interni, sulla base di un progetto approvato dal comune di Legnago.

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CONCLUSIONI

Dalla ricerca Bertanza et al. appare probabile che una enorme quantità di sostanze Perfluoroalchiliche (PFAS) sia stata assorbita dal carbone attivo dei filtri a Lonigo. Il processo utilizzato per “rigenerare” lo stesso carbone attivo sarebbe descritto nella AIA della società Chemviron di Legnago, fornitore di Acque Veronesi per il carbone attivo acquistato dalla stessa.

Il processo di rigenerazione, pure se probabilmente efficace con altri inquinanti non fluorurati, non contiene però né riferimenti al trattamento di sostanze della famiglia dei PFAS, né limiti allo scarico delle stesse sostanze in aria.

La temperatura del sistema di postcombustione appare troppo bassa per produrre una efficace scomposizione delle sostanze perfluoroalchiliche alla luce del caso della Norlite (NY, USA).

Le uniche vie di uscita dal processo, per i 200 kg di PFAS oggetto di filtraggio delle acque potabili in questi anni, sembrano essere i camini del forno, lo scarico in fognatura e i fanghi del sistema di depurazione, sulle quali ARPAV non sembra avere fatto ricerche dettagliate, continuative, inequivocabili. Se le ha fatte, le fornisca, se le farà ora, è troppo tardi.

Notevoli emissioni di polvere nera sono rilevabili a vista sulle strutture della ditta e anche nei dintorni, come riportato dalla cittadinanza.

La presenza di un sistema di “pump and treat” definito nel documento “pompaggio e trattamento da piezometri” pone notevoli quesiti su quali sostanze si effettui il trattamento.

È da notare che la neutralizzazione con latte di calce dei reflui contenenti derivati del fluoro era usata in Rimar-Miteni ancora decenni fa, in vasche non a tenuta nelle quali venivano scaricati i residui di lavorazione e che vennero fatte chiudere dall’autorità [11]. Come lo stesso codice CER 15.02.02 – che identifica la categoria filtri esausti – è lo stesso codice rifiuto tossico pericoloso dichiarato dalla Miteni ai tempi in cui inceneriva le sostanze trovate in aria nel documento Arpav 2017.

È quindi necessario che venga fatta luce sulla reale efficacia dei trattamenti di filtraggio e rigenerazione, che venga effettuato un bilancio di massa dei PFAS ricevuti ed emessi anche relativamente agli anni precedenti a partire dal 2013, e che venga in ogni caso impedita la liberazione nell’ambiente delle sostanze filtrate, specialmente per tutelare gli incolpevoli cittadini che vivono attorno agli stabilimenti in cui vengono trattate queste sostanze.

Inoltre, occorre considerare la presenza sul mercato di grandi quantità di carbone attivo contaminato da Pfas, che, non adeguatamente tracciato, potrebbe essere oggetto di trattamento, smaltimento ed usi non ammissibili.

Davide Sandini

alberto_peruffo_CC

Comitato di Redazione
4 GIUGNO 2021

NOTE

[1] http://www.acqueveronesi.it/pagina.asp?IdPagina=17

[2] https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0048969720326711?via%3Dihub

[3] GEA srl Progetto di filtrazione ad osmosi inversa per la discarica di Sant’Urbano (PD).

[4] https://pfas.land/2021/02/18/18-febbraio-2021-si-possono-incenerire-i-pfas-no-mutano-si-diffondono-costano-il-punto-scientifico-e-la-questione-inceneritore-di-fusina/

[5] https://theintercept.com/2020/04/28/toxic-pfas-afff-upstate-new-york/

[6] http://www.acqueveronesi.it/pagina.asp?IdPagina=17

[7] Sito di Acque Veronesi, sezione Amministrazione Trasparente, file:  Contratto chemviron-acqueveronesiCA19-00165.pdf

[8] https://www.ilsole24ore.com/art/chemviron-filtri-hi-tech-depurare-acqua-e-aria-ACJ23BGB

[9] Provincia di Verona, determinazione n. 2471/15 del 06 luglio 2015.

[10] Provincia di Verona, determinazione n. 4777/16 del 14 dicembre 2016.

[11] Relazione dei NOE Inchiesta Miteni.

// IMMAGINE COVER di Stefano Zattera

L’immagine cover è tratta da The Big Barbeque di Stefano Zattera, copertina della nuova edizione aggiornata di Non torneranno i prati, con prefazione di Francesco Vallerani, disponibile nelle librerie dal 3 giugno 2021.

Qui un estratto con alcune immagini della nuova edizione, con la copertina integrale >> https://casacibernetica.cloud/2021/05/31/non-torneranno-i-prati-nuova-edizione-ampliata-prefazione-di-francesco-vallerani-aggiornamento-di-storie-e-cronache-esplosive-di-pfas-e-spannoveneti/

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